Un Cammino Lungo il Tema del Controllo
“...and those who allows themselves to be manipulated by those who would manipulate, deserve what they get.”
Bob Dylan
Bob Dylan
Questa citazione da sola sarebbe sufficiente a descrivere che cos’è il nostro progetto.
L’idea è nata, nel dicembre del 2008, dopo aver rivisto Il Gabinetto del Dr. Caligari e il suo sequel / remake realizzato nel 1989.
Nell’originale, diretto da Robert Wiene, si narra di uno psichiatra che, divenuto pazzo, sfrutta le sue conoscenze per ridurre in schiavitù un sonnambulo, per poi servirsene per compiere alcuni delitti.
Una riflessione espressionista sulla follia del potere realizzata nel 1920.
Alle soglie dell’ascesa di Hitler.
Nell’apocrifo seguito, diretto nel 1989 da Stephen Sayadian, assistiamo alle imprese della nipote del dottore originale, che dirige con metodi assai discutibili una clinica per disturbi legati alla libido.
Sayadian, che viene dall’ hard core, orchestra un grottesco ritratto dell’occidente reaganiano, il grido espressionista di un’ umanità spinta a desiderare e consumare mentre l’AIDS viene dipinto con i colori di un’apocalisse divina.
In entrambe le pellicole Caligari è l’emblema del super-criminale, dotato del potere necessario a controllare e ridurre in schiavitù i suoi simili.
Inarrestabile, capace di tutto, amorale e totalmente pazzo.
La rappresentazione poetica di ogni dittatore.
Ma è ancora possibile parlare, al giorno d’oggi, di super-criminale?
Non abbiamo sempre creduto alla favola del “cattivo” per permetterci di “uscirne puliti “?
Quanta responsabilità c’è da parte nostra nel diffondersi del male?
Quanta parte della nostra forza va ad alimentare questo o quel Caligari del passato e del presente?
Quanto siamo sicuri di non essere noi stessi il dittatore, il criminale, lo scienziato pazzo e distruttore?
Da queste domande è partito il lavoro con la compagnia.
In breve tempo ci siamo trovati a maneggiare una serie infinita di argomenti come l’identità, la responsabilità delle proprie azioni, la crescita di un individuo e l’autocoscienza.
Ad entrare in un turbinio di riferimenti bibliografici in grado di saltare con disinvoltura da Le Città Delle Notta Rossa a Bhagavad Gita.
Rischiando di arenarci nelle secche della presunzione e della banalità.
L’unico modo per uscirne era mantenere un punto di vista distaccato, mettere in scena dei fatti e non dei giudizi, e il miglior modo per raggiungere quest’obiettivo è sembrato essere la scrittura scenica.
Una volta assimilata dagli attori, la geografia dei riferimenti e delle domande ha cominciato ad infittirsi fino a distruggere i contorni del tema di partenza, portando il tutto ad un momento di vera crisi.
Non sapevamo più di cosa stavamo parlando.
Ed è stato allora che sono nati i personaggi.
Abbiamo lasciato parlare loro, Zac, Leo, Edo, May e Ada.
Abbiamo ascoltato le loro storie, cercato i punti dove queste s’incontravano.
Ci siamo ritrovati con in mano una trama intricatissima ma estremamente lineare.
Questo ci ha permesso di poter finalmente guardare a qualcosa di concreto, non solo ad una serie di suggestioni o riflessioni.
Una storia tradizionale, piena di eventi e colpi di scena, molto cinematografica.
Anche troppo, a dire il vero.
Volevamo che lo spettatore provasse la stessa sorpresa e lo stesso senso di disorientamento provato da noi nel costruirla.
Abbiamo quindi volutamente omesso una serie di dettagli narrativi, e aggiunto una voce fuori campo che permettesse allo spettatore di muoversi comunque nella cronologia degli eventi.
Il sesto personaggio.
Una presenza indagatrice, rappresentante del pubblico in sala.
Ed abbiamo ottenuto il risultato sperato.
Uno spettacolo che solleva degli interrogativi, che obbliga a cercare una chiave interpretativa.
Una storia che non impone la propria visione sugli eventi.
Qualcosa su cui poter discutere.
In un caso abbiamo avuto anche modo di assistere ad un litigio: due ragazze parlavano della reazione di Ada dopo lo stupro.
Ne parlavano come fosse una persona vera.
È stato emozionante.
L’idea è nata, nel dicembre del 2008, dopo aver rivisto Il Gabinetto del Dr. Caligari e il suo sequel / remake realizzato nel 1989.
Nell’originale, diretto da Robert Wiene, si narra di uno psichiatra che, divenuto pazzo, sfrutta le sue conoscenze per ridurre in schiavitù un sonnambulo, per poi servirsene per compiere alcuni delitti.
Una riflessione espressionista sulla follia del potere realizzata nel 1920.
Alle soglie dell’ascesa di Hitler.
Nell’apocrifo seguito, diretto nel 1989 da Stephen Sayadian, assistiamo alle imprese della nipote del dottore originale, che dirige con metodi assai discutibili una clinica per disturbi legati alla libido.
Sayadian, che viene dall’ hard core, orchestra un grottesco ritratto dell’occidente reaganiano, il grido espressionista di un’ umanità spinta a desiderare e consumare mentre l’AIDS viene dipinto con i colori di un’apocalisse divina.
In entrambe le pellicole Caligari è l’emblema del super-criminale, dotato del potere necessario a controllare e ridurre in schiavitù i suoi simili.
Inarrestabile, capace di tutto, amorale e totalmente pazzo.
La rappresentazione poetica di ogni dittatore.
Ma è ancora possibile parlare, al giorno d’oggi, di super-criminale?
Non abbiamo sempre creduto alla favola del “cattivo” per permetterci di “uscirne puliti “?
Quanta responsabilità c’è da parte nostra nel diffondersi del male?
Quanta parte della nostra forza va ad alimentare questo o quel Caligari del passato e del presente?
Quanto siamo sicuri di non essere noi stessi il dittatore, il criminale, lo scienziato pazzo e distruttore?
Da queste domande è partito il lavoro con la compagnia.
In breve tempo ci siamo trovati a maneggiare una serie infinita di argomenti come l’identità, la responsabilità delle proprie azioni, la crescita di un individuo e l’autocoscienza.
Ad entrare in un turbinio di riferimenti bibliografici in grado di saltare con disinvoltura da Le Città Delle Notta Rossa a Bhagavad Gita.
Rischiando di arenarci nelle secche della presunzione e della banalità.
L’unico modo per uscirne era mantenere un punto di vista distaccato, mettere in scena dei fatti e non dei giudizi, e il miglior modo per raggiungere quest’obiettivo è sembrato essere la scrittura scenica.
Una volta assimilata dagli attori, la geografia dei riferimenti e delle domande ha cominciato ad infittirsi fino a distruggere i contorni del tema di partenza, portando il tutto ad un momento di vera crisi.
Non sapevamo più di cosa stavamo parlando.
Ed è stato allora che sono nati i personaggi.
Abbiamo lasciato parlare loro, Zac, Leo, Edo, May e Ada.
Abbiamo ascoltato le loro storie, cercato i punti dove queste s’incontravano.
Ci siamo ritrovati con in mano una trama intricatissima ma estremamente lineare.
Questo ci ha permesso di poter finalmente guardare a qualcosa di concreto, non solo ad una serie di suggestioni o riflessioni.
Una storia tradizionale, piena di eventi e colpi di scena, molto cinematografica.
Anche troppo, a dire il vero.
Volevamo che lo spettatore provasse la stessa sorpresa e lo stesso senso di disorientamento provato da noi nel costruirla.
Abbiamo quindi volutamente omesso una serie di dettagli narrativi, e aggiunto una voce fuori campo che permettesse allo spettatore di muoversi comunque nella cronologia degli eventi.
Il sesto personaggio.
Una presenza indagatrice, rappresentante del pubblico in sala.
Ed abbiamo ottenuto il risultato sperato.
Uno spettacolo che solleva degli interrogativi, che obbliga a cercare una chiave interpretativa.
Una storia che non impone la propria visione sugli eventi.
Qualcosa su cui poter discutere.
In un caso abbiamo avuto anche modo di assistere ad un litigio: due ragazze parlavano della reazione di Ada dopo lo stupro.
Ne parlavano come fosse una persona vera.
È stato emozionante.
Compagnia Delle Furie
Milano, gennaio 2010
Milano, gennaio 2010
Nessun commento:
Posta un commento